Finché l’acqua non si incupì

FINCHÈ L’ACQUA NON S’INCUPÌ

di Roberto Pragliola

 

grossa1Erano davvero grosse certe trote del fiume Nera di quei tempi. E prima ancora selvagge. Pesci forti e combattivi al punto che spesso le portavi a riva molti metri più a valle rispetto a dove l’avevi ferrate. Una non la dimenticherò mai. L’ho avuta in canna tante volte e non sono mai sono riuscito a prenderla. Mi ha lasciato dentro un ricordo come le ferite di certi amori: rapporti che il tempo può distruggere nei fatti ma mai nel profondo dell’animo.

Una volta mi ruppe la Featherweight della Pezon et Michel, una cannetta di bambù che amavo: un attrezzo cui devo la prima scintilla all’origine della canna TLT. Il suo uso mi trasmetteva sensazioni che allora percepivo vagamente, anzi confusamente. Per fortuna quella scintilla covò sotto la cenere a lungo. C’è voluta la fibra di vetro, e in seguito la grafite, per trasformare quella scintilla in un falò. La vaghezza in un fatto.

Quella trota la trovavo quasi sempre fuori. Anche in pieno giorno. Pareva quasi che mi attendesse per ingaggiare l’ennesimo scontro del nostro duello infinito. Stava in un canaletto laterale, stretto fra il ranuncolo a due passi da una di quelle buche tozze, profonde, avvolte dalla vegetazione, buie come caverne.

In quelle due spanne d’acqua proiettava sul fondale di candida ghiaia un’ombra scura enorme. Come gli lanciavo la mosca saliva regolarmente a prenderla e poi, in un modo o nell’altro,riusciva sempre a sconfiggermi causandomi ferite laceranti che avevano ridotto il mio animo ad una piaga dolorante.

Quella volta che ruppe la Featerweight il suo comportamento fu diverso dal solito. Pareva improntato alla sfida. Mi parve addirittura che scrutasse la mosca in modo beffardo e strafottente, come fosse sicura che anche quell’ennesimo duello l’avrebbe vinto ancora lei. Difatti salì con più calma e prese l’artificiale ancora più lentamente. La cosa mi inquietò.

Ferrai. Rimase immobile come se nulla fosse. Lo faceva spesso. Ma questo volta mi parve che il tempo si fosse fermato. Quasi che anch’esso trattenesse il respiro. Come la piatta che precede l’uragano. Ma sapevo anche che di li ad un attimo avrebbe tentato di scaraventarsi verso la buca, per ficcarsi in quei cupi gorghi con la furia della discesa di un relitto nel Maelström. L’avevo a non più di sei o sette metri. Una distanza siderale.

“Vediamo cosa ti inventi questa volta. Hai sempre fatto una cosa diversa”, dissi ad alta voce. Gli parlavo con il riguardo di un vecchio nemico in cui odio e rispetto si mescolano senza mai sapere quale fosse il sentimento prevalente. Ormai eravamo come due vecchi compagni, ma anche due acerrimi nemici. Io la volevo uccidere. Lei altrettanto. Io miravo al cuore, alla carne, al sangue. Lei all’animo, alla psiche. Eravamo come due duellanti vagamente simili a quelli di Conrad alle prese con il loro duello infinito.

La intravedevo sul fondo fra un rigurgito e l’altro della corrente: immobile, massiccia, possente. “ Questa è la volta buona. Me l’hai fatta troppe volte. Ora mi sposto e mi piazzo in fondo alla buca, dove posso controllare ogni tua mossa. Questa volta non me la fai”.

Feci un passo. L’intento era di allargare il compasso delle gambe in modo da opporre il fianco alla corrente per contrastarla meglio. E fu l’errore. Sono sicuro che lei se ne accorse dalla variata tensione del nylon. Così mi anticipò. Partì proprio quando ero più vulnerabile, nel momento esatto in cui mi spostavo: nell’attimo in cui avevo il piede destro sul fondo, quello sinistro un po’ sollevato. Si scaraventò verso di me con la furia di chi combatte per la vita. Così mi trovai in un baleno con la vetta della canna tutta incurvata su se stessa senza poter fare nulla se non pregare o smoccolare. Il crack dell’attrezzo, schiantato come da una folgore, mi arrivò fin nel profondo dell’animo frantumandolo definitivamente.

Sedetti su in un ammasso di ranuncolo ai bordi della buca ascoltando l’acqua scorrere, gorgogliare, mutare continuamente volto finché, all’imbrunire, con il calare della luce, anche l’acqua s’incupì.

pezon

Canna  6’3″ – Featherweight – Pezon et Michel

Foto Massimo Giuliani