La bella vita del principiante

La bella vita del principiante

la bella vita del principianteEro entrato a far parte del Club da poco. Ero quindi un pivello, e l’aria che tirava li dentro pareva fatta apposta per mantenerti tale chissà per quanto. C’erano almeno tre “soloni” a quei tempi al CIPM di Firenze di Via dell’Anguillara. Poi venivano gli altri, i pescatori qualsiasi, e infine io e pochi altri, gli ultimi arrivati, che facevamo da tappezzeria con rassegnazione. Il solone più solone di tutti era Franco Alinei. Aveva sempre gli ultimi cataloghi inglesi sottomano, ad iniziare da quello Hardy, il che lo metteva in una luce particolare. Anche Giorgio Loni era un solone, in più aveva stile. Un gran signore. Poi c’era Giancarlo Ferroni, ch’era una cosa diversa. Per esempio un pescatore vero. C’era anche un altro Giancarlo nel Club, un imprenditore. Non era proprio considerato un solone, ma in compenso sentenziava perfino di più. Una volta arrivò a dire che se non si recideva il nylon del nodo della mosca perfettamente a raso, se ne spuntava anche un solo millimetro, tanto bastava perché il pesce la rifiutasse. Nessuno prendeva le cose futili così sul serio come lui. Come si vede non è cambiato molto nel mondo della mosca da quei tempi.

Nel Club c’era anche un impiegato bancario, un tipo sottile dall’aria spiritata e sempre pronto a partire in quarta per i teoricismi più astrusi. Insomma l’imprenditore era in buona compagnia. Costui quando andava a pescare si portava dietro almeno cinque sei canne. Dov’è la stranezza, direte? Sicuri?

Una volta andammo a cavedani nell’Ombrone, dalle parti di Grosseto. L’imprenditore si portò dietro un fascio di canne: se voleva sbalordirmi ci riuscì. Se invece voleva umiliarmi, il suo fu addirittura un trionfo. Non fu semplice farle entrare tutte nell’auto, un coupè 850 Fiat rosso fiammante. I tubi si intrecciavano da tutte le parti e ad ogni curva o frenata dovevo stare attento a che non mi crocifiggessero. Il viaggio non fu proprio rilassante, se avete presente la vecchia strada per Grosseto tutta curve e saliscendi.

Durante il tragitto parlò solo lui. Non per vanagloria, ma per erudirmi, come ebbe a ripetermi più volte. Lo fece con il tono mieloso e il sorriso mellifluo dei preti quando declamano l’importanza del perdono. Parlò di canne fantastiche, delle loro caratteristiche tecniche, finezze da intenditori. Roba che neanche mi sarei immaginato. Per esempio del filo con cui erano fermati gli anelli. Del loro spessore e altre cose ancora. E’ incredibile quante cose incidessero sull’azione della canna per costui. Per non parlare della vernice. Tutte cose di cui ero all’oscuro. Chissà se era per questo che non azzeccavo mai una canna. Poi passò ai mulinelli e di come sceglierli perché bilanciassero la canna alla perfezione. Dovevo porre la massima attenzione a quest’oggetto ripeté, altrimenti avrei avuto problemi con il lancio. Visto la mia poca perizia al riguardo, la cosa mi rallegrò e preoccupò al tempo stesso. Perché ebbi l’impressione che fosse più difficile scegliere un mulinello piuttosto che imparare a lanciare.Poi fece una lunga dissertazione sui porta finali, naturalmente di pelle pregiatissima, nei confronti delle scatole porta mosche, quelle d’alluminio con le cellette azionate da una molletta, e altri aspetti importanti in genere. Quando arrivammo sull’Ombrone, mi sfuggì un sospiro di sollievo. Se n’accorse. Mi guardò incredulo. Possibile non gli fossi grato?

Di fronte a noi il fiume scorreva lemme lemme. Un poco più a valle c’era una correntina, subito seguita da un tratto in cui l’acqua ruzzolava addirittura tipo torrente, cosa rarissima per questo fiume. A quei tempi, almeno a Firenze, in commercio ancora non c’era il gilet. Ficcavamo tutto dentro le borse. Tutte provenienti dall’Inghilterra. Di Hardy o della Barbour. Bellissime e costosissime. Ne aveva addirittura tre. In una teneva i mulinelli, nell’altra le scatole porta mosche e nella terza i nylon e tutto il resto.

Il mio compagno montò le canne con cura. A suo dire erano di bambù pregiato, quasi tutte in tre pezzi. Come le ebbe montate si mise ad agitarle nell’aria concentratissimo, declamandomene ispirato le caratteristiche. Le provò tutte. Ci mise un tempo incredibile prima di selezionarne alfine tre.

Stavo già disperando di poter fare qualche lancio, quando mi disse che era pronto. Riuscii a stento a reprimere un sospiro di sollievo. Purtroppo non potei evitare di guardare l’ora. Erano quasi le sei del pomeriggio. Eravamo partiti da Firenze poco dopo le una. A quei tempi da Firenze a Grosseto ci volevano circa tre ore. Come si accorse che avevo guardato l’orologio, mi sorrise compiaciuto. Così m’informò che questa volta la selezione delle canne era stata rapida. Eravamo a cavedani, a trote sarebbe stato diverso. Annui inebetito. Lo ero a tal punto che gli dissi che era stato addirittura rapidissimo. Come le parole mi uscirono di bocca, me ne pentii immediatamente. Forse avevo esagerato. Non sapendo come rimediare a quella frittata, abbozzai un sorriso. Nelle intenzioni voleva essere conciliante, oppure chissà cosa, viceversa era solo imbecille. E difatti peggiorò la situazione, perché subito dopo mi disse severamente che non approvava che avessi dietro un solo attrezzo. Feci la faccia mesta. Non mi costò un gran sforzo. Stavo iniziando a rassegnarmi.

Le canne che aveva selezionato aveva tentato di metterle dentro una specie di faretra che teneva a tracolla.Quell’oggetto era simile a quelli che usano gli arcieri per metterci dentro le frecce: una roba di pelle che si era fatta costruire all’uopo. In commercio non c’era nulla del genere, mi informò. Per evitare di farmi redarguire nuovamente gli dissi che era un oggetto molto bello. Mai visto una cosa simile, aggiunsi. Poi decisi di zittirmi per paura che fra una parola e l’altra mi scappasse quella domanda che avevo sulla punta della lingua e che forse mi si leggeva in viso: perché diavolo si portava dietro tre canne? Per fortuna non se ne accorse. Era troppo intento ad infilarsi addosso le tre borse incrociandole sulle spalle per bilanciarne il peso, senza al tempo stesso che entrassero in conflitto le une con le altre e, tutte assieme, con la faretra. Si incamminò verso il fiume con la faretra e le borse che gli traballavano dietro, piegato in due da quel fardello. Lo seguivo barcollando più di lui tanto ero imbambolato. Ma prima ancora sconvolto. Possibile fosse quella la mosca?

Quando arrivammo sul posto c’era già qualche bollata. Feci per squagliarmela, ma l’occhiata che mi dette mi gelò. Così seppi il motivo di quelle tre canne, il mistero mi fu alfine magnanimamente svelato. Con aria illuminata e voce dotta, mi spiegò che quei tre attrezzi gli sarebbero serviti ognuno per il tipo d’acqua specifico che avevamo di fronte: uno per la piana, il secondo per la correntina e l’ultimo per il tratto torrentizio. Naturalmente erano di tre diverse lunghezze e lanciavano code di tre differenti pesi. Appena finito di parlare, sorrise beato. Roteò gli occhi attorno con l’atteggiamento di un attore in attesa degli applausi dopo una scena. Poi me li immobilizzò addosso scrutandomi intensamente per godersi l’effetto della sua sagacia tecnica sulla mia faccia. Percepivo vagamente che la rivelazione esigeva da parte mia una risposta adeguata. Ma ero scioccato. Stranulato. Allibito. Avevo la faccia più sbalordita che mai nessuno abbia avuto su questa terra. Oppure la più stupida. Comunque non faceva molta differenza. Il sorriso che gli squarciò la faccia da un lato all’altro, mi fece comprendere che era soddisfatto dell’effetto che la cosa aveva avuto su di me. Appena fui in grado di parlare, per evitare altri guai, gli dissi che era un’idea brillante. Fantastica. Superlativa. Da grandissimo tecnico della mosca. Continuai un bel pezzo finché mi resi conto che ancora una volta stavo esagerando. Ma non riuscivo a fermarmi. Gli aggettivi mi uscivano di bocca uno dietro l’altro come la pioggia viene giù dal cielo. Mi guardò dubbioso, ma anche con una certa condiscendenza. Pareva indeciso fra l’una e l’altra. Rimase a lungo perplesso. Attesi con ansia. Poi qualcosa nel suo sguardo mi raggelò. Aveva prevalso la condiscendenza. Il panico s’impadronì di me. Non sapevo più cosa fare. Di aggiungere altre parole, neanche a pensarci. Di abbozzare sorrisi, non era proprio il caso. Evidentemente era giunto alla conclusione che ero un buon allievo. Proprio un bravo ragazzo. Meritavo altra erudizione. Così accadde quello che temevo: dopo la lezione sulle canne, m’impartì anche quella sulle mosche.

Nel frattempo i cavedani continuavano a bollare allegramente e con foga.

Gli ci volle un bel po’ per sfilarsi di dosso la borsa in cui aveva messo le scatole portamosche: si era attorcigliata con le altre due e tutte assieme attorno alla faretra. Più tentativi faceva e più si aggrovigliavano. Dovetti sgrovigliarlo, facendo però attenzione a non far trapelare il dolcissimo nettare della vendetta. Per la prima volta in vita mia seppi cos’era la felicità. Quando infine riuscì a districarsi da quella specie di filo spinato che si era attorcigliato addosso, tirò fuori tre scatole metalliche inglesi da trentadue scomparti l’una. Bellissime epreziosissime, mi disse. Pesantissime e scomodissime pensai. Niente di meglio, aggiunse. Quanto di meno pratico ci sia, sospirai dentro di me. Ne prese una, apri le cellette, poi fece la stessa cosa con le altre. Ogni volta che apriva una celletta, spesso una mosca rimaneva impigliata nella molletta che ne comandava l’apertura schizzando per l’aria. Poi non era facile trovarla fra i ciottoli. Un paio di volte cercò di prenderle al volo. Purtroppo quello non era il suo giorno fortunato. Le mosche continuavano a schizzare per aria come cimici impazzite.

Come Dio volle riuscì a prendere tre mosche tenendole ben strette in pugno. Socchiuse la mano con cautela. Non successe nulla. Con un atto di disperato coraggio aprì la mano fissando i tre artificiali incredulo della loro immobilità. Erano tre Bi-Visible. Una bianca e nera montata su amo del numero quattordici. L’altra bianca e rossa e montata su un amo del numero dodici, mentre l’ultima era bianca e grigia, anch’essa montata su un amo del numero dodici. Mi informò che la prima era per le acque piatte, la seconda per le correntine e la terza per il tratto torrentizio. A questo punto iniziò una dotta disquisizione del perché e del percome aveva scelto proprio quelle. Nel frattempo i cavedani continuavano ad ingozzarsi come maialetti.

Infine prese la canna per le superfici piatte, montò la relativa mosca e mi disse di incominciare a pescare. Non ci potevo credere. Ero talmente sconcertato che me lo dovette ripetere una mezza dozzina di volte. Alla fine, spazientito, mi chiese che razza di pescatore ero. Possibile che dovesse incoraggiarmi lui? Annui mogio mogio.

Lo precedetti inoltrandomi nell’acqua con il cuore in gola voltandomi ogni tanto verso di lui aspettandomi da un momento all’altro chissà cos’altro. Ero talmente inebetito che neanche vedevo la moltitudine di giganteschi cavedani che schizzavano da tutte le parti proprio come le mosche dalle cellette. Avevo paura di tutto. Di sbagliare nell’entrare in acqua, di sbagliare il posto, sbagliare l’attacco e forse sbagliare anche a respirare. A ogni lancio mi voltavo a guardarlo, la faccia da cane bastonato, gli occhi imploranti peggio di uno che chiede l’elemosina. Prima mi guardò severamente, poi un sorriso compassionevole gli addolcì improvvisamente il volto, proprio come si fa con il più tenero dei fanciulli o nei confronti dello scemo del villaggio. Ebbene sì, ebbe pietà di me. Mi si avvicinò e, con una voce dolcissima che mi raggelò, incominciò a impartirmi una lunga serie di suggerimenti sul lancio. Lo disse lasciando intendere il grande favore che mi faceva. Contento? Lo guardai come un cane guarda il padrone appena questi ha smesso di bastonarlo. Così mi ritrovai ad obbedirgli proprio come un cane o la più imbranata delle reclute. Piegavo il polso, disse. Signorsì, risposi! Il mio loop era troppo ampio, continuò severo. Larghissimo, aggiunsi quasi battendo i tacchi. La mia coda cadeva in acqua rumorosamente. Mi dispiace, signore, risposi umiliato. Ormai ero distrutto, svuotato di qualsiasi energia.

Intanto le bollate dei cavedani andavano via via scemando. Di lì a poco non se ne vide più neanche una.

Quando sopraggiunse il buio, non avevo preso neanche un misero cavedanello. Mi aspettavo la solita strigliata e invece mi sbagliavo. Mi guardò compassionevole, comprensivo, perfino con una certa tenerezza. Gli e ne fui grato. Lui aveva preso due pesciotti. Però l’aveva fatto con una tattica specifica. Me la spiegò per tutto il viaggio di ritorno. Particolare per particolare. Ogni volta ringraziavo, commosso e riconoscente. Poi mi spiegò con altra dovizia di particolari tecnici il perché certe giornate sono negative proprio come quella odierna. Lui se n’era accorto subito, ma non me lo aveva detto per non scoraggiarmi. Si sa come sono i principianti. Assentii e lo ringraziai dicendogli che apprezzavo la sua sensibilità d’animo.

Era un bel pezzo che attendevo la fine di quella giornata. L’avevo agognata come si brama la più fascinosa delle fanciulle. Più di un disperato la morte. Durante il viaggio di ritorno scopersi che quando il dolore supera un certo livello, non c’è più dolore. Lo stesso torturatore assume una veste diversa. Se solo accenna ad una pausa fra una tortura e l’altra, per esempio, lo guardi addirittura con affetto. Ebbene mi stava succedendo qualcosa del genere. Così, appena giunti a Firenze, la prima cosa che feci fu di chiedergli, prima speranzoso, poi implorante, infine senza più alcun ritegno, quando saremmo tornati a pescare assieme. Mi guardò con severità. Poi, con la stessa determinazione con cui un giudice è costretto a leggere la condanna all’imputato, umanamente, compassionevolmente ma, altrettanto fermamente, inflessibile nella sua retta decisione, mi disse di nò. Mai più, aggiunse.

Roberto Pragliola