Con il coltello fra i denti

Con il coltello fra i denti

Ormai si era fatto tardi senza aver visto una bollata o preso una trota. All’inizio di stagione, in montagna, con la mosca secca, se non catturi durante le ore centrali della giornata hai chiuso. A dire il vero me n’erano capitate due, una dietro l’altra. Purtroppo avevo ferrato da cani. La punta dell’amo aveva toccato la bocca del pesce ma era scivolata via. All’inizio di stagione l’acqua è fredda, la trota prende l’artificiale più lentamente, mentre il pescatore, al contrario, è fin troppo caldo e ferra precipitosamente. Ora una trota persa non si può considerare una cattura. E’ persa, appunto. Al massimo può valere per se stessi, non per gli altri. A quei tempi non avevo ancora superato lo stadio della “dimostrazione”. Non avevo raggiunto quel livello di sicurezza che consente di non dipendere dal giudizio degli altri. Non ero ancora consapevole di me stesso, intendo. Il mio problema era che nel Club ero considerato bravino.Per certuni forse il migliore, ma quel forse era la mia condanna poiché non avevo convinto tutti. Più che altro non avevo persuaso i più bravi. Ma quelli non li puoi convincere, solo costringere. Soprattutto non avevo convinto Guido e Carlo, i due soloni del Club. Si erano sempre guardati in cagnesco quei due, ma da quando avevo alzato la cresta parevano diventati amici per la pelle. Soprattutto miei nemici. L’errore di Guido e Carlo era di non avermi tirato il collo ai primi pigolii. Poi diventa dura nei confronti di uno che ha il coltello fra i denti anche quando dorme.

Eravamo una dozzina. Tutti del Club. Una di quelle gite così in voga negli anni settanta. Quella volta avevamo deciso di andare sull’Aveto, in Liguria. Non era stata una scelta felice, dato che eravamo in aprile: vento, spruzzi di pioggia, freddo. Ed era andata come sapete. Per giunta ora il cielo si stava incupendo ancora di più. Nubi pesanti mi schiacciavano al suolo facendomi temere il peggio. Avevo girovagato su e giù per il torrente come un dannato fino a spezzarmi gambe e schiena. All’improvviso l’animo mi mollò e la stanchezza prevalse. Decisi di smettere. Trovai un sentiero e lo risalii. Ero giunto a pochi metri dalla statale, quando sentii le voci di Guido e Carlo. Stavano parlando di catture. Udii Carlo dire di averne prese quattro. Guido addirittura cinque. Fu una pugnalata al cuore. Per giunta vibrata dal coltello più crudele. In questi casi devi sfoderare il tuo, aguzzarlo ben bene e restituire immediatamente la botta. Tornai indietro. Pescai. Non mi salì nemmeno una trotella che è una.

Fu allora che il maligno che mi torceva le budella s’impossessò di me fino a travolgermi. Scelsi tre mosche secche e le spelacchiai fino a dargli la parvenza di mosche sommerse. Ad altri artificiali tolsi il tinsel metallico e lo rigirai attorno all’occhiello dell’amo della mosca di punta in una specie di piombatura. Lo feci senza alcun ritegno, per uno che predicava la mosca secca neanche fosse il Vangelo. Modificai il finale montandogli dei braccioli. Pescai come non l’avevo mai fatto: nonostante il vento, il freddo e una pioggerella fine mista a spruzzi di neve aguzzicome aghi. Andai a scovare trote in posti impossibili. Più volte fui mezzo travolto dalla corrente imbarcando acqua negli stivali. Era talmente gelata da scorticare la pelle. Il maligno smise di torturarmi solamente quando ebbi preso ben sette trote. Ora potevo smettere.

Quando giunsi al ristorante dove avevamo deciso di ritrovarci a fine pescata, c’erano già tutti. Avevano smesso da tempo. Qualcuno mi rimbrottò. Era un bel pezzo che mi aspettavano. Ma non li sentivo. Non li vedevo. Stavo aspettando che mi chiedessero com’era andata. Avevo il cuore gonfio da scoppiare e gli occhi mi scintillavano di una gioia maligna. Quando me lo chiesero feci finta di non aver sentito. Attesi la seconda sollecitazione. Appena ripeterono la domanda, una voce dentro di me, una voce che non riconoscevo, che non mi piaceva, mi travolse come in precedenza aveva fatto quella maligna. Fu lei, non io, che se ne uscì dicendo che mi era andata buca. Anche se ne avevo slamate due. Tutto qui.

Cercai con lo sguardo Guido e Carlo. Sapevo di non poter contare sulla loro clemenza. Chissà per quanto tempo avrebbero rigirato il coltello nella ferita. E invece sentii qualcuno dire che nessuno aveva preso una sola trota. Neanche minuscola. Non capivo. Ero frastornato, un mistero che svelai in seguito. Carlo e Guido, ormai stanchi e sfiduciati, avevano smesso di pescare poco prima che li scorgessi sulla statale. E, come accade spesso in casi del genere, per tirarsi su il morale, stavano rammentando come s’era conclusa un’altra uscita di pesca. Quando, per l’appunto, Carlo ne aveva prese quattro e Guido cinque: esattamente quanto avevo sentito, attribuendolo però a quel giorno. Masticai amaro, sorrisi felice.

Roberto Pragliola