Il no kill in Italia

Verso la fine degli anni ’70 la pesca in Italia stava attraversando un periodo difficile. Il boom economico iniziato venti anni addietro, si era da tempo arrestato e aveva lasciato il posto alla crisi. Di contro però gli effetti negativi di quel periodo di grande sviluppo e trasformazione, erano vivi più che mai e continuavano a manifestarsi sotto forma di inquinamento, deturpazione del territorio, depauperamento delle risorse idriche e forestali e sfruttamento intensivo di aree fino a poco tempo prima ancora integre. I pescatori di acqua dolce erano stimati in circa 1 milione di unità, e anche loro erano afflitti dalle problematiche sopracitate. Le norme che regolamentavano la pesca sportiva consentivano di poter trattenere anche 15 trote di 18 cm di lunghezza ad ogni uscita. Fu in quel periodo, che tra coloro che si dedicavano alla pesca utilizzando esclusivamente le esche artificiali (mosca e spinning), iniziò a diffondersi l’idea di andare oltre i regolamenti, allora troppo permissivi e per nulla capaci di esercitare il mantenimento e lo sviluppo del patrimonio ittico, attraverso la pratica e la diffusione di comportamenti miranti a tutelare e salvaguardare la vita e la riproduzione dei pesci più pregiati (trote e temoli in primis). Furono promosse diverse iniziative in tal senso, per lo più di carattere locale e su base volontaria, con lo scopo di sensibilizzare quanti più pescatori possibile ad assumere atteggiamenti più responsabili e meno predatori nei confronti dei pesci. In molte zone del paese infatti, i cestini pieni di barbi e cavedani e le catture numerose di trote, lucci, persici, ecc, assai comuni soltanto pochi anni addietro, erano divenuti ormai un ricordo e la tendenza era verso un peggioramento. Si andava per fiumi e torrenti allo scopo di trascorrere ore di svago e divertimento, ma anche per portare a casa qualche buon pesce da consumarsi la domenica con tutta la famiglia riunita. Era divenuto chiaro a tutti che il prelievo eccessivo di esemplari di ogni taglia, aveva contribuito all’inesorabile impoverimento anche dei corsi d’acqua più ricchi di pesce; bisognava fare al più presto qualcosa per invertire questa china ed era fondamentale coinvolgere tutti. L’idea era semplice, ignorare le norme in vigore e limitarsi a trattenere non più di 4/5 capi per uscita e di una misura di molto al di sopra rispetto a quella legale. In questo modo si pensava di soccorrere i nostri ambienti fluviali ed i pesci, e risollevare la situazione nazionale dal declino in cui era precipitata. I più ottimisti auspicavano che nel giro di pochi anni la taglia media dei pesci sarebbe risalita in maniera considerevole, riportando una buona parte dei fiumi ai fasti di un tempo. Negli ambienti della Mosca invece, si iniziò a pensare di istituire zone sperimentali, sulla falsa riga di quanto era avvenuto negli USA 20 anni prima, ove consentire la pesca solo con esche artificiali e vietando qualsiasi forma di prelievo. L’obiettivo sarebbe dovuto consistere nel recupero dei fiumi in tempi brevi e nel dimostrare ai pescatori a”boccone”che il futuro della pesca nel nostro paese non avrebbe potuto prescindere da tali pratiche definite “altamente sportive”. Il problema principale consisteva nel convincere la maggior parte dei pescatori italiani, e le numerose organizzazioni che li rappresentavano, ad adottare tali provvedimenti restrittivi. Il pescatore medio italiano infatti era abituato a considerare la sua attività di pesca, per quanto dilettantistica, quasi esclusivamente orientata alla cattura del pesce destinato poi ad essere trattenuto. Sempre meno spesso i pesci portati a casa venivano poi consumati dai pescatori e dalle loro famiglie, ma ciò non era sufficiente a dissuaderli dal trattenere comunque il pescato. Preferivano tentare di regalarli ad amici e conoscenti piuttosto che rimetterli in libertà vivi e vegeti, con la speranza di poterli catturare nuovamente magari un po’ cresciuti. La mentalità allora diffusa li portava a considerare che, se non li avessero trattenuti loro, l’avrebbero fatto altri ed il risultato sarebbe stato il medesimo. Inoltre la diffidenza verso chi praticava la pesca in maniera diversa e palesava talvolta atteggiamenti un po’ snob, rendeva difficile intavolare una comunicazione veramente efficace. Per questi motivi le istituzioni di tratti “no kill” o “catch & release”, sono state da sempre lunghe da realizzare e problematiche da mantenere, perchè avversate dalla maggioranza dei pescatori che ravvisano il tentativo da parte di pochi di impossessarsi di una parte del patrimonio di tutti. La cosa poi che non è mai stata digerita è il fine; avere a disposizione tratti di fiume ben ripopolati per pescarci in compagnia di pochi “colleghi” con tecniche esclusive.

In circa 35 anni, di questi tratti ne sono stati realizzati molti, specialmente al nord e centro Italia, ma solo pochi sono riusciti a durare nel tempo e pochissimi esistono ancora. Attualmente tra i più conosciuti e frequentati ci sono quelli sui fiumi Brenta e Piave, I no kill sul Nera di Borgo Cerreto e Ferentillo, la Tail Water del Tevere, i no kill su Sangro e Volturno e quello sul Sele-Tanagro . Questi tratti hanno una lunghezza sufficiente a giustificarne l’esistenza, e alle volte raggiungono un’estensione considerevole, mentre in altri casi esistono zone con regolamentazione molto simile ridotte a poche centinaia di metri. Nessuno di questi no kill può considerarsi al sicuro dalle brame di coloro che li vorrebbero aperti a tutte le tecniche di pesca con l’adozione dei regolamenti tradizionali delle varie regioni e/o provincie, e ultimamente le cose stanno peggiorando. Il no kill sul Piave di Belluno, già di per se piuttosto corto, è stato suddiviso in vari tratti e aperto anche ad altre esche, sul Brenta e nel Tevere, a causa di eventi diversi riconducibili alla gestione e manutenzione delle dighe che li regimano, si sono verificati grossi danni alle popolazioni di pesci ed insetti a causa di piene rovinose e asciutte prolungate. Il no kill sul Nera di Borgo Cerreto, fino a 4/5 anni fa era il fiore all’occhiello del centro Italia e riuscire a prenotare un’uscita nel week ed era spesso difficoltoso. Oggi non è più così, le presenze si sono drasticamente ridotte come pure la sorveglianza e anche gli Agriturismo della zona risentono pesantemente di questa situazione. Sul Sangro e Volturno, i problemi relativi al pesante inquinamento e al dilagare del bracconaggio non sembrano poter essere arginati in maniera sufficiente e il recente progetto ARS Sele, ha dovuto fronteggiare dall’inizio diversi problemi di convivenza con i pescatori locali. Qualcuno potrebbe obiettare che, contemporaneamente a questi fatti, altre zone no kill sono sorte altrove e che in considerazione di ciò si possa considerare la situazione stabile. Me se ci si sforza di restare nei fatti, bisogna avere il coraggio di rilevare che il “Progetto no kill”in Italia è naufragato.

Naufragato non significa che non sia accaduto nulla, anzi. Intanto i problemi di inquinamento, bracconaggio, distruzione di interi ambienti a causa del cosiddetto progresso, non siamo riusciti a risolverli. La maggior parte dei pescatori italiani, nonostante il ricambio generazionale, non sono molto diversi dai loro predecessori e continuano a considerare la pesca come uno sfoggio di abilità personale da esternare a tutti. Secondo questa mentalità, il pesce catturato rappresenta la cartina tornasole con cui valutare una giornata di pesca; per tanto i fiumi DEVONO essere costantemente ripopolati nel corso della stagione per consentire a chi paga licenze, tessere e permessi vari, di assicurarsi quantitativi elevati di prede, tali da soddisfare le loro esigenze. La pesca con la mosca nel frattempo si è diffusa maggiormente, grazie anche ad associazioni quali Club e Scuole, ma la divisione che regna all’interno di questo micro mondo è notevole e continua a determinare l’isolamento da quello ben più vasto che ospita tutti gli altri pescatori. L’iniziale proposito per cui tanti anni fa si pensò di ricorrere al no kill, ovvero dar modo ai fiumi di ripopolarsi da soli e dimostrare a tutti che si potevano trattenere (senza obbligo) meno pesci, più grossi, e divertirsi tutti di più, è stato così disatteso. Il no kill doveva essere solamente una cura da somministrare in casi estremi, ed invece è stato fatto divenire un modello, discutibile, con cui gestire alcuni tratti di fiumi in maniera esclusiva. Ancora oggi nel nostro paese, tratti del genere vedono la luce non per una esigenza collettiva da parte dei pescatori, ma grazie a concessioni elargite da parte delle amministrazioni locali in favore di piccoli gruppi di persone che ne fanno espressa richiesta. Solitamente queste poche persone possono vantare qualche referente all’interno delle istituzioni locali che, a fronte della realizzazione di una sorta di microeconomia locale alimentata dall’indotto dell’attività di pesca, avallano i progetti presentati. Tutto ciò nella migliore delle ipotesi. I pescatori locali però, vivono queste situazioni con grande risentimento ed il circolo vizioso ha inizio. Con l’istituzione dei tratti, vengono ratificate poi le regole di accesso alla pesca, regole che esasperano ulteriormente gli animi già sufficientemente surriscaldati. Nella maggior parte dei casi, si può pescare solo munendosi di permessi aggiuntivi a pagamento (oltre alla licenza nazionale, tesserino regionale e/o provinciale e in certi casi pure della tessera fips o fipsas), si può utilizzare solo la tecnica della pesca a mosca con coda di topo e non si può trattenere alcun pesce. Sono graditi, e talvolta imposti, l’uso del guadino con rete speciale, di nylon non troppo sottili per non stressare il pesce durante il combattimento e una cura particolare nel maneggiare i pesci durante lo scatto delle fotografie o la slamatura.

Si dirà che sono tutte condizioni necessarie per salvaguardare al massimo i pesci che, come recitava qualcuno, sarebbero troppo preziosi per essere pescati una sola volta. Peccato però che questi regolamenti che si prefiggono intenti così nobili, consentano di pescare quotidianamente tutti, o quasi, i pesci presenti nel tratto, grazie all’utilizzo di più esche contemporaneamente, che quasi sempre sono ninfe esageratamente piombate con palle di tungsteno per farle affondare facilmente e poterle altrettanto facilmente presentare davanti alla bocca del pesce. Peccato anche che la salvaguardia dei pesci garantita dal regolamento, non impedisca ai frequentatori del tratto di poter catturare decine e decine di pesci ad ogni uscita senza limitazioni di sorta e di poter pescare talvolta anche in periodo di divieto (tanto si pratica il no kill…). E come può legittimarsi il divieto di pescare al tocco con un verme o in passata con la camola, quando è possibile fare lo stesso con un’attrezzatura “da mosca”e con più esche artificiali legate insieme? Di fronte a tali insinuazioni, si levano immediate le ire dei promotori e avventori, pronti a pontificare sui benefici che il tratto in questione produce. Peccato che ai pesci produce soltanto maltrattamenti e sofferenze quotidiane, che potrebbero essere risparmiate adottando semplici atteggiamenti dettati da un briciolo di sensibilità. Tra questi ci sarebbe quello di evitare di trasformare una giornata di pesca in un safari o una guerra e limitarsi a pescare poco e catturare non più di una decina di pesci, scegliendo magari le zone più impegnative e gli avversari più difficili, per poi chiudere la canna e trascorrere il resto della giornata ad ammirare, osservare e cercare di imparare qualche cosa in più. Sarebbe molto più efficace della prenotazione telefonica che oltretutto fa somigliare la pesca ad una sorta di partita di calcetto con il campo riservato….!!!! Peccato poi che il trattenimento, anche di un solo esemplare, venga raramente preso in considerazione. Eppure stiamo parlando di pesca: o no?

E’ stupefacente come certi egoismi arrivino a determinare posizioni tanto intransigenti. La pesca è un’attività nata con l’uomo e anche se da decenni non si va più sul fiume per sopravvivere, la cattura del pesce rimane l’evento significativo che racchiude in se tutto ciò che è stato concepito a monte. L’emozione di ferrare una preda più grande del solito, il recupero incerto accompagnato dal timore che si possa sganciare da un momento all’altro e contemporaneamente l’immaginazione di mostrarla orgogliosi in famiglia o agli amici, come se la si fosse già catturata, l’abbiamo provata tutti nessuno escluso. Ed è in quegli attimi di incertezza che si materializzano le sensazioni più profonde che la pesca dona ad ogni suo praticante, che in una manciata di secondi si trova a decidere se trattenere il pesce della vita, o lasciarlo andare. Io penso che si tratti di scelte difficili entrambe e che ognuno deve poter esprimere liberamente dopo aver portato a termine la cattura. Dentro di noi, l’anima predatrice e quella indulgente convivono da sempre in equilibrio e dovrebbe essere la nostra sensibilità e non un’ideologia a suggerirci ogni volta cosa fare. Molti pescatori lasciano libere le trote catturate, indipendentemente dalla loro taglia. Alcuni obbediscono al proprio animo, altri sono vegetariani o allergici al pesce, altri ancora amano mangiare il pesce di mare nei confronti del quale non manifestano nessuno dei riguardi che nutrono invece per le trote, e così via. Mi chiedo tuttavia che senso abbia continuare ad andare a pescare quando si ritiene che ogni pesce catturato debba comunque obbligatoriamente essere rilasciato? E che senso abbia cercare forsennatamente di catturarne a decine, visto che non se ne tratterrà alcuno? In queste pratiche non riesco proprio a scorgere quel rispetto e quell’amore verso l’ambiente e le sue creature che tanto decantiamo. I pescatori autentici, così come i veri cacciatori, sono quelli che una volta catturate poche prede giuste riescono a smettere, serenamente. Costoro sanno godere non soltanto del pesce allamato, ma anche di molte altre gioie che i nostri fiumi e torrenti custodiscono e sanno regalarci con generosità. Quando incontrano lungo il fiume altri pescatori, che usano diversi metodi e magari portano ancora a tracolla un vecchio cestino di vimini, si fermano a scambiare sensazioni e prospettive, non li chiamano “padellari”o “vermaioli”in senso dispregiativo.

Durante i miei personali approfondimenti sul tema no-kill, ho avuto occasione di leggere in Internet tra le tante considerazioni, anche quelle di Massimo Zaratin, pescatore ed attuale Presidente Nazionale dell’Associazione per la Difesa e la Promozione della Cultura Rurale – Onlus. La riporto perché credo sia riuscito a sintetizzare meglio di altri i concetti fondamentali che trasformano un uomo in un pescatore.

Affermazioni attuali e “moderne”, pesanti però, che entrano taglienti nella storia dell’uomo, incidono nelle sue attività secolari di sostentamento e fanno ben intendere come il progressivo distacco dell’uomo dalla natura abbia ormai inquinato anche chi dovrebbe farne parte in prima persona. E’ la lenta trasformazione dell’uomo predatore per bisogno in una figura ibrida che, tolto il bisogno, non sa riconoscere neppure più se stesso, si rinnega, crea surrogati anomali di quel che faceva per continuare a svolgere qualcosa che non è più quel qualcosa di un tempo in quanto mancante dell’ossatura principale che lo sosteneva. L’analisi riguarda le dichiarazioni sulla pesca dei giorni scorsi e la diatriba scatenata dai soliti animalisti. La frase è più o meno questa: “noi pescatori rispettiamo la natura, perchè le nostre prede non le uccidiamo ma, dopo averle pesate e fotografate, le liberiamo immediatamente”. Sui siti dedicati a questa forma di pesca, il “catch and release” o “no kill” per gli addetti ai lavori, si leggono argomentazioni etiche, morali ed ambientali a sostegno della stessa. Si legge, tra gli appassionati del “no kill”, che alla gioia della cattura, si aggiunge la gioia del rilascio. Queste dichiarazioni, oltre ad aver scatenato le ire degli animalisti che ne leggono solo uno sfruttamento animale per mero divertimento, hanno sollevato parecchie lamentele anche tra i pescatori tradizionali (la maggioranza). Non voglio pertanto ripetere le mille argomentazioni dette da questi ultimi, già sufficienti a demolire in un sol colpo le pretese di maggior eticità dei sostenitori di questa forma di pesca ma voglio soffermarmi unicamente sul soggetto della frase virgolettata riportata più su: “Noi pescatori”. Pescatore è colui che esercita la pratica della pesca, attività come la caccia nata con l’uomo per motivi di sostentamento alimentare. La pesca, così come la caccia, prevede dei rituali ben precisi il cui scopo finale è la cattura di una preda, non per mero divertimento, ma per cibarsi di quella cosa che si è riusciti, con abilità, a prendere tra le mani. Non ha alcuna importanza se oggi quella stessa cosa la si può comperare al supermercato; il rituale assume il suo pieno significato se viene compiuto in ogni sua parte e la mancanza di una di queste componenti lo degrada e lo svilisce fino a renderlo un surrogato di un’attività incompleta il cui uomo che la pratica non sa più neppure comprenderne i motivi per i quali la svolge. La pesca ovviamente non è solo cibo, non è neppure solo appagamento personale per aver dimostrato a se stessi le capacità di misurarsi con la natura, come non è neanche solo spassionato contatto con il territorio. La pesca è molto di più, è la risultanza di tutte queste componenti la cui alchimia, più è simile all’attrazione ancestrale che l’uomo aveva per essa, più il rituale diventerà appagante. Una canna di bambù, in un luogo solitario, una preda furba, la cattura, la soddisfazione di portarlo via da quel fiume che si sente un po’ nostro ed orgogliosi mostrare la preda catturata fino all’epilogo, cioè cibarsene ricordandosi i momenti e le fatiche spese, sono la Pesca. Una somma di risultanze che giustificano la nostra incapacità di esprimere in due parole il perché svolgiamo la pesca o la caccia. Chi, molto banalmente, spiega che pesca per il divertimento di catturare il pesce non sta esercitando quella nobile pratica che invece, nel vero pescatore, sa sviluppare dei sentimenti molto più profondi in quanto affondano le loro radici direttamente nella storia dell’uomo e del suo stesso essere. L’appagamento nello svolgere queste due importanti attività per l’uomo, la caccia e la pesca, è quindi a mio avviso direttamente proporzionale alla nostra capacità di saperle svolgere nella maniera più simile possibile alle loro origini ed ai loro perché. Più ci allontaniamo da queste origini e più difficile sarà saper riconoscere intimamente, con il cuore, non a parole, i motivi sul perchè lo facciamo. Guardate signori, che perse queste semplici cose (a me piace definirlo il lato “spirituale” della caccia e della pesca), per sostituirle con qualcosa che le richiama solo lontanamente con l’immagine, attraverso l’appagamento di uno solo degli atti più su descritti, ci siamo persi; ci siamo giocati il cacciatore ed il pescatore, lasciando spazio allo sportivo che tiene di più alla sua bacheca di fotografie o a quella delle medaglie vinte nelle gare. La vera competizione dev’essere invece con se stessi, quella che deve servire a farci riscoprire cosa significa sentirsi parte della natura. E’ l’”Io” pescatore che va ritrovato, non il “noi”! Metaforicamente, una canna di bambù, od un vecchio fucile subacqueo, e ritornare un po’ bambini, compiendo appieno quel rituale che si tramanda dalla notte dei tempi risultano essere gli ingredienti sufficienti ed essenziali per far rivivere la pesca, quella vera di sempre! Un gesto che dev’essere d’esempio per la nostra “strana” società quasi ad assumere il significato di un gesto di protesta utile a far comprendere ai nostri comuni detrattori che il mondo storto è il loro, non il nostro!

Mauro Nini